Luca Restelli

Commissioni di performance

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Partiamo da un assunto che metterà tutti d’accordo: sarebbe opportuno evitare di pagare il 5% di commissioni annue su un fondo o una gestione che ha generato una perdita netta all’investitore in quello stesso anno.

Sembrerebbe una banalità quanto appena descritto, invece capita molto più spesso di quanto si possa credere, soprattutto su patrimoni rilevanti.

Infatti, uno degli aspetti meno dibattuti circa i servizi di gestione del patrimonio è sicuramente costituito dalle commissioni applicate ai rendimenti associati alle diverse transazioni/gestioni. Tale prelievo, tecnicamente conosciuto come commissione di performance, è costituito da addebiti effettuati dalle società di gestione in base ai risultati conseguiti dalla gestione del patrimonio e, quindi, applicate all’over performance ottenuta rispetto al benchmark di riferimento.

Lo scopo principale di tale sistema è quello di incentivare i gestori ad ottenere risultati e, quindi, rendimenti sempre maggiori, allineando così gli obiettivi di questi a quelli dei propri clienti. Se utilizzate correttamente le commissioni di performance costituiscono quindi uno strumento efficace per conseguire il massimo guadagno dalla singola operazione, favorendo sia il gestore che l’investitore.

Tuttavia, non sempre tali commissioni vengono stabilite in modo chiaro e definito da parte dell’intermediario che le applica. Proprio questo potrebbe essere causa di situazioni paradossali in cui porzioni sostanziose dei ritorni spettanti al cliente vengono completamente assorbite dalle commissioni di performance. 

Come funzionano le commissioni di performance

La commissione di performance si applica ai prodotti del risparmio gestito, cioè, tra gli altri, fondi comuni, SICAV, gestioni patrimoniali. Il funzionamento di base è molto semplice: se l’investimento registra rendimenti positivi, allora parte del guadagno viene trattenuto dal gestore come premio per la performance. La commissione applicata assume così la forma di una compartecipazione ai guadagni, che, come detto in precedenza, dovrebbe stimolare l’asset manager a far bene.

Tradizionalmente, la percentuale di guadagni spetta alla società di gestione ed è compresa tra il 10% e il 20% della performance generata dalla società  di gestione stessa. 


Importante a questo punto è definire esattamente il concetto di performance su cui vengono calcolate queste commissioni.  

Essa può essere, alternativamente:

  • la performance assoluta conseguita dal capitale investito,
  • la performance relativa (o overperformance), cioè la differenza tra il rendimento del capitale e quello dell’indice di riferimento, o benchmark.

Dopo aver definito se ci si riferisce alla performance relativa o assoluta, è necessario stabilire quanto tempo intercorre tra ogni valutazione del guadagno sul quale viene prelevata la commissione.

Tale passaggio è essenziale per poter stabilire accuratamente se le commissioni stabilite all’interno di un determinato contratto di gestione patrimoniale possano andare a danneggiare in modo eccessivo il rendimento complessivo spettante al cliente, avvantaggiando solamente il destinatario del prelievo. 

Infatti, se il periodo di rivalutazione (o periodo di reset) fosse, per esempio, pari a un mese (non si tratta di un esempio casuale, visto che esistono anche prodotti del genere sul mercato!) e se il fondo si limitasse ad oscillare “casualmente”, seguendo il mercato e generando performance positive un mese e negative un altro, senza aggiungere alcun valore, per ogni oscillazione mensile verso l’alto verrebbe prelevata la commissione. Questo accadrebbe anche se a livello complessivo il risultato totale conseguito dal capitale investito fosse negativo!

In tal caso, vista l’estrema volatilità dei mercati, l’ammontare di commissioni pagate dall’investitore sarebbe ingente a prescindere dalle effettive capacità del gestore e, a guadagnarci effettivamente, sarebbe solamente l’istituto che ha in gestione il prodotto e che incassa le commissioni di performance.

In particolare, per i fondi di diritto italiano, Banca d’Italia fissa alcuni limiti a tutela dei risparmiatori, incluso il periodo di reset minimo pari a un anno, mentre per i fondi di diritto estero non sono generalmente previste tutele.

Se invece le commissioni di performance venissero applicate solamente al raggiungimento di nuovi massimi, con il meccanismo High Water Mark (HWM) l’incentivo verrebbe prelevato solo se il valore della quota del fondo (o la differenza di performance tra fondo e benchmark di riferimento) aumentasse effettivamente, raggiungendo nuovi massimi. 

Rendendo poi simmetrica la commissione di performance si otterrebbe un allineamento di intenti quasi perfetto: se il gestore guadagna, allora incassa, se invece perde, paga.

Non è nostra intenzione affermar che, nel caso venisse proposto un prodotto valido e redditizio questo dovrebbe essere scartato per la sola applicazione di commissioni di performance. È bene però prestare la massima attenzione in fase di valutazione del contratto che sancisce il carico commissionale e le condizioni previste dal rapporto di consulenza che intendete avviare. In particolare, determinanti dell’incidenza del totale delle commissioni sono le modalità di calcolo previste, la redistribuzione del rischio e la durata del periodo di reset.

Come si diceva in apertura, troppo spesso il fine di incentivo e di allineamento di interessi delle commissioni di performance passa in secondo piano, e la presunta eticità dello strumento lascia il posto a fenomeni di azzardo morale, frequentemente sottovalutati dalla maggior parte dei clienti. 

Ciò porta il consulente, nelle fasi di composizione del portafoglio e di scelta degli assets su cui puntare maggiormente, ad assumere rischi maggiori a spese del cliente. Infatti, in presenza di commissioni elevate, egli cercherà di massimizzare il proprio rendimento derivante dalle commissioni, andando ad individuare e selezionare beni e titoli aventi prospettive di guadagno maggiori, che, nella quasi totalità dei casi, coincidono con quelli aventi rischio intrinseco più elevato. 

Per dare un’idea concreta di quanto descritto fin qui è utile analizzare e quantificare il peso delle commissioni di performance sui bilanci di alcuni tra i principali istituti finanziari e intermediari italiani.

Basti pensare che, anche in anni di performance deludenti, fino al 25% dei ricavi di alcune realtà di consulenza è generato dalle commissioni di performance.

Una ricerca di Mediobanca ci aiuta molto in tal senso ed è facilmente recuperabile sul web, almeno in alcuni estratti.

Il rapporto di 88 pagine esamina nel dettaglio il profilo dei costi di 330 fondi comuni, per un ammontare di assets gestiti complessivo di circa 120 miliardi di euro. 

L’esame si estende a cinque diverse categorie di fondi (azionari, flessibili, bilanciati, multi-class e reddito fisso), scegliendo per ciascuna di esse i prodotti più rilevanti per le cinque reti quotate a Piazza Affari (Anima, Fineco Bank, Azimut, Banca Mediolanum e Banca Generali). 

Il peso delle commissioni di performance risulta difficilmente giustificabile sui fondi obbligazionari e flessibili. Secondo Mediobanca, questi ultimi in particolar modo somigliano spesso a fondi azionari, mentre i benchmark rispetto ai quali viene calcolata la commissione di performance sono “simili a quelli monetari” e quindi più facili da battere. 

Questa finta “sovraperformance” va a tutto beneficio delle commissioni incassate dalle società. 

“Crediamo che questo non sia un indicatore della capacità di generare alfa” ossia un risultato veramente superiore alla media del mercato, chiosa Mediobanca.

Abbiamo ritenuto opportuno sollevare un tema di assoluto rilievo per qualsiasi cliente private.

In ogni caso, per approfondire quanto emerso dallo studio citato sarebbe necessario effettuare un’analisi dettagliata (che consigliamo vivamente) di tutte le controparti.

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